In visita al museo della carta a Fabriano, vengo a conoscere la storia di Paolo Ciulla, personaggio bohemiene un po’ disadattato, artista geniale e dotato di grandi capacità, ma purtroppo incompreso ed emarginato che alla fine riesce a realizzare la sua arte (ed il suo desiderio di giustizia sociuale per le classi più disagiate) solo facendo il falsario.
Cosa che non lo fa diventare ricco, anzi; in compenso gli tributa un riconoscimento per la sua capacità (le banconote erano praticamente vere, tanto erano perfette), e addirittura viene coniato un neologismo in suo nome: ciulare, appunto, detto di chi riesce a fregare il prossimo con destrezza.
Il che mi ha fatto venire in mente quanto avevo scritto in questo post: che cioè
- creare denaro dal nulla ed immetterlo spendendolo (o regalandolo, addirttura, come pare abbia fatto il nostro Paolo) crea molto minori danni alla collettività che
- creare denaro immettendolo nel circuito economico indebitando tutti quelli che, diversamente da chi lo può fare, non può fare altrettanto.
Il che – mi raccomando – non dovete interperetarlo come una istigazione a delinquere.
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PAOLO CIULLA – Il Falsario Caritatevole
Siamo nel novembre del 1922 e nella Va Sez. del Tribunale Penale di Catania, i tre esperti di cartevalori inviati dalla Banca d’Italia di Roma, affermano senza indugi che le banconote da 500 lire fabbricate dal falsario Paolo Ciulla, sono quasi perfette, al punto da risultare difficilmente distinguibili da quelle autentiche anche da chi, come i cassieri di banca, e’ abituato a maneggiare banconote dalla mattina alla sera.
Per Paolo Ciulla questo e’ il più lusinghiero dei riconoscimenti a cui potesse aspirare, anche se per riceverlo e’ dovuto comparire in un’aula di tribunale per essere sottoposto ad un processo penale che in quei tempi fece epoca.
Ma partiamo dall’inizio di questa singolare vicenda. Chi e’ Paolo Ciulla?
Paolo Ciulla potrebbe essere definito un ingenuo idealista, un artista incompreso e spesso osteggiato, da chi avendo qualche potere lo esercita in modo coerente con i pregiudizi del suo tempo.
Paolo nasce nel 1867 in una famiglia agiata di Caltagirone, proprietaria di due botteghe di suole, cuoio e pellami, situate nella centralissima “via di San Giacomo” a due passi dal Duomo.
Giuseppe Ciulla, il padre di Paolo, gestisce le botteghe insieme all’altro figlio Vincenzo, più piccolo di Paolo di due anni, e alla moglie Maria; completa il nucleo familiare la terza figlia Rosina, nata nel 1874.
La famiglia conduce una vita agiata, possiede tenute agricole e cresce nel benessere. Paolo, di animo estremamente sensibile, si appassiona alle trasformazioni socioculturali della sua epoca e si disinteressa agli affari di famiglia.
Intorno ai 17 anni, stringe una profonda amicizia con il coetaneo Nino Fiducia, di umilissima famiglia, che vive in condizioni disagiate. Il confronto tra la sua agiatezza e le misere condizioni dell’amico, gli provoca un sentimento di insofferenza per l’ingiustizia sociale e, parallelamente anche un tenace senso di colpa, che lo accompagnerà per tutta la vita, e che lo induce ad annegare i dispiacere nell’alcol.
Nella speranza di un miglioramento sociale partecipa, almeno idealmente, alle rivolte siciliane del 1893, ma al primo colpo di fucile fugge con la velocità di una saetta.
Ascolta i rivoltosi che incitano i bifolchi e i contadini meridionali, riferendo che: “Garibaldi ha depredato la Sicilia di 150 milioni-oro e i Savoia con l’operazione manomorta di oltre 180 milioni-oro. E il Risorgimento e l’Unita’ d’Italia dove sono andati a finire?”.
I Savoia, come risposta, inviano solamente soldati dal Nord-Italia che, pur senza prendere iniziative aggressive, si presentano equipaggiati in assetto di guerra.
Dopo la fase pseudo-rivoltosa, dotato di talento per la pittura, Paolo decide di dedicarsi all’arte e alla fotografia, e racconta ai genitori che, per apprendere tale attivita’, intende seguire un fotografo che tutti i mesi, nel suo giro per i paesi della contrada, passa da Caltagirone. Finge di partire, ma il fratello lo scopre alcuni giorni dopo, in una taverna in “Via degli Stovigliai”, dove Paolo, sfoga il suo estro artistico, dipingendo le pareti del locale e il fondo delle botti, narrando attraverso pennelli e colori le gesta dei Paladini di Francia, in cambio di un po’ di minestra e qualche bicchiere di vino.
La sua bravata provoca un affettuoso e paterno rabbuffo, mentre in Paolo prende corpo la fissazione di esser sottoposto a prepotenze e persecuzioni, che gli impediscono di esprimersi appieno come vorrebbe.
Dopo un periodo di insonnia e di depressione, lenite dell’alcol, Paolo si reca dal Sindaco di Caltagirone, il Cavalier Michele Libertini, per denunciare il sopruso del quale si sente vittima, ovvero quello di non poter dare libero sfogo alla sua passione artistica.
Il Cavalier Libertini, dopo un incontro con Don Peppino Ciulla, concorda che Paolo, tramite un assegno erogato dal Comune per i più meritevoli, avrebbe frequenta il corso di perfezionamento negli studi artistici, presso il Reale Istituto di Belle Arti, prima nella città di Roma e poi in quella di Napoli.
Cosi Paolo parte per Roma, dove resta affascinato dalla magnificenza della Città Santa, inizia a studiare con qualche profitto, ma deve anche prendere atto che i romani non sono disponibili ad accoglierlo a braccia aperte, anzi, lo prendono in giro per il suo marcato accento dialettale.
Il suo ingenuo desiderio di giustizia sociale lo fa gironzolare a vuoto nei pressi di Montecitorio, nella speranza di incontrare casualmente un deputato suo conterraneo, al quale chiedere di intervenire a favore di Caltagirone, modernizzandola e collegandola al resto del mondo.
Dopo un anno di studi a Roma parte per Napoli, la sede principale del Reale Istituto di Belle Arti, la lontananza dal borgo natio gli fa bene, l’alcol non e’ più necessario per dimenticare dolori e preoccupazioni, e poi a contatto con altre situazioni e mentalità, i conflitti sociali della sua terra vengono drasticamente ridimensionati.
A causa della morte del padre, Don Peppino Ciulla, Paolo torna a Caltagirone nel 1887, ma dopo i buoni propositi espressi a caldo, comunica al fratello Vincenzo che non intende tornare a Napoli per terminare gli studi, ma vuole aprire uno studio fotografico a Caltagirone, e per fare questo gli servono i soldi per l’affitto del locale e per l‘acquisto dell’attrezzatura da fotografo.
Un anno dopo la morte del padre, anche la mamma si spegne nel sonno, nel frattempo Rosina, la sorella di Paolo, viene rapita dal convento dove risiede da un avventuriero che, per accaparrarsi la quota di eredità che le spetta, la mette in cinta e prontamente la sposa, sfortunatamente Rosina muore dando alla luce uno striminzito pargolo.
Paolo torna a vivere nel palazzotto in “Via sotto il Duomo” con il fratello Vincenzo e durante la notte vaneggia contro le ingiustizie del mondo e le prevaricazioni nei suoi confronti, solo all’alba, con l’aiuto dell’alcol, riesce a trovare la pace necessaria per riposare qualche ora.
Il suo ritorno a Caltagirone riacutizza la sua sensibilità per le ingiustizie sociali, ma ora non e’ piu’ solo, le sue idee sono in sintonia con la corrente politica più innovatrice, capeggiata dall’Avv. Mario Milazzo, un liberale di sinistra.
Paolo partecipa alle elezioni generali amministrative di Caltagirone, del 3 novembre 1889, e viene eletto nelle liste del Circolo Operaio che presenta come capolista proprio l’Avv. Milazzo, il quale diventa sindaco.
Ma clero, nobiltà e ricchi commercianti non accettano la sconfitta e fanno di tutto fino ad ottenere lo scioglimento del consiglio comunale, e il commissariamento del comune per “accertate irregolarità elettorali”; quindi, dopo sette mesi di Regio Commissariamento, i moderati tornano di nuovo al potere e il cerchio si chiude.
Dopo tale disfatta molti calatini gli sono contro, anche alcuni degli stessi operai e contadini che lo hanno votato ed eletto. Paolo torna a dipingere con scarsi risultati ed a fare il fotografo con qualche successo, ma presto viene accusato di aver molestato un ragazzino e viene preso a schiaffi di fronte a tutti,dal padre del minirenne.
Il fatto che Paolo non si difenda e non reagisca a tali accuse, viene letto come una conferma delle sue tendenze omosessuali e pedofile, che nella Caltagirone del tempo lo rendono bersaglio del pubblico scherno oltre che di una privata deplorazione.
Paolo si trasferisce quindi a Catania con il suo studio fotografico, dove sistema le macchine fotografiche e i fondali che ha portato con sé da Caltagirone. Il lavoro scarseggia e i suoi clienti, che sono per lo piu’ dei malavitosi locali, non lo pagano per il servizio reso dallo “Studio Liberty”, ma anzi, pretendono che Ciulla si accontenti dell’onore di averli serviti.
Ad un certo punto si presenta quella che potrebbe essere la possibilità di svolta nella sua vita, si rende disponibile una Cattedra per l’insegnamento del Disegno nelle scuole tecniche di Caltagirone, Paolo vi partecipa con entusiasmo e produce tutta la documentazione necessaria, fra gli altri documenti allega anche gli attestati di frequenza degli anni passati ai Reali Istituti di Belle Arti di Roma e di Napoli, titoli questi di grande pregio.
Ma il tempo passa e da Caltagirone non arriva nessuna comunicazione sugli esiti del concorso, Ciulla torna nel suo paese natio e viene a conoscenza che un altro concorrente ha vinto la cattedra al suo posto e che la sua documentazione, non solo non e’ mai arrivata alla Commissione Esaminatrice, ma che non ne e’ rimasta traccia alcuna.
Paolo si sente deluso e frodato, ripiombando nei vecchi incubi, di questa discriminazione accusa un suo avversario politico l’onorevole Giorgio Arcoleo e cerca di farne un caso nazionale. Il fratello Vincenzo, che nel frattempo vive a Torino, dove si e’ arruolato nella Cavalleria, torna a Caltagirone e si riavvicina al fratello Paolo per aiutarlo a risollevarsi da questa ulteriore disavventura.
Di li a poco Vincenzo conosce e sposa Concetta Alba, una affascinante e giovane donna di Caltagirone, poi vende il palazzotto di “Via sotto il Duomo” e rileva un’ affittacamere con 11 stanze a Catania, dove ospita il fratello.
Nel frattempo Don Stefaneddu e il cosaduciaro sono stati messi alla porta dal pittore Santino, che dopo averli ospitatati nel palazzo dove abita, vuole ritrovare la sua integrità morale; i due compari sono costretti quindi a caricare tutto il materiale occorrente per la falsificazione e riportarlo nella prima fabbrica in via Perriera a Pedara, decidono quindi di dedicarsi alla falsificazione del 100 lire tipo “Barbetti con matrice”.
Ma il quasi cieco Ciulla non e’ ancora fuori gioco, si fa’ costruire da un falegname in pezzi separati le attrezzature, che poi ritira personalmente e assembla nella casa affittata, i suoi polpastrelli sono diventati sensibilissimi e suppliscono alla perdita della vista, come carta sceglie quella usata nelle pasticcerie come sottofondo dei gelati serviti nei piattini, una carta piu’ sottile di quella usata in precedenza, ma soprattutto già impregnata di colla e quindi meno soggetta alle sbavature del colore.
Come e’ sua abitudine, Paolo studia tutti i dettagli della nuova banconota: un fondo color viola pallido, una cornice di colore azzurro, in alto lo stemma Sabaudo coronato in padiglione sormontato dall’aquila, sul fronte a sinistra l’allegoria della Legge con in mano il codice, a destra l’allegoria della Giustizia bendata con la mano sull’elsa di una spada e ai suoi piedi un puttino che regge una bilancia, nell’ovale della filigranata la Dea Roma con l’elmo crestato e alettato, le firme, l’indicazione del valore, le lettere della serie e i numeri progressivi, sul retro a sinistra l’allegoria dell’Enologia con tralci di vite accompagnata da putti portanti uva, a destra l’allegoria della Navigazione con bussola, timone e globo terrestre, con putti che reggono la catena dell’ancora e recano mercanzie, al centro sullo sfondo la raffigurazione del Credito con libro e scettro.
Dopo innumerevoli esperimenti e prove, finalmente arriva alla creazione di un biglietto che lo soddisfa e inizia la produzione, mentre per la spendita si rivolge a Marietta, cognata di Carmelino e al padre di lei Don Antonino, lo spaccio avviene nelle trattorie frequentate dai carrettieri, per ogni 500 lire false, 40 buone vanno a Ciulla, 10 a Marietta e 10 ai carrettieri. Gli affari vanno molto bene, la richiesta dei falsi e’ in forte aumento e Paolo ingaggia Marietta, oltre che per la spendita, anche per aiutarlo all’interno della fabbrica di falsi.
Finalmente Ciulla esce dall’indigenza e, nei due anni trascorsi fra il 1920 e il 1922 mette in circolazione circa 16.000/17.000 biglietti da 500 lire che, seppur contraffatti, sono cosi ben fatti che nessuno li identifica come falsi.
I sentimenti di solidarietà sociale di Ciulla non si dissolvono con l’improvvisa agiatezza, anzi, la sua natura caritatevole si manifesta con una pioggia benefica di banconote da 500 lire di provenienza anonima che, tra la primavera del 1920 e l’autunno del 1922 entrano nelle case di molti bisognosi di Catania e della provincia. Alla vista dell’inaspettato e quanto mai gradito regalo, i beneficiati restano senza parole, per comprendere lo stupore dei beneficiati dobbiamo pensare che le 500 lire di allora equivalgono a circa 500 euro di oggi.
Mentre le 100 lire false fabbricate a Pedara sono state leggermente migliorate e vengono spacciate senza problemi in tutta l’Italia, ai due ex compari si e’ aggiunto un incisore Orazio Squadrito (detto tratra per il tartagliamento nel parlare).
Nel frattempo la polizia cerca di scoprire la provenienza dei biglietti da 50 lire falsi, e svolge indagini a tappeto fino a che l’appuntato Elia Gervasi, grazie all’opera dei filippeddi (collaboratori), sospetta dello strano comportamento di un abitante in Viale Mario Rapisardi a Catania.
Dopo una lunga e attenta sorveglianza, seguita da una meticolosa perquisizione, Paolo Ciulla viene arrestato il 17 ottobre del 1922.
Durante la perquisizione vengono scoperti oltre alle vernici, alle risme di carta e una grande quantità’ di cliché, anche 96.439 biglietti da 500 lire “Barbetti – con matrice” per un valore di circa 48 milioni di lire, cifra questa paragonabile oggi a circa 50 milioni di euro, piu’ 1.750 biglietti dello stesso taglio non ancora rifiniti.
Ciulla viene interrogato in questura dal dott. Avitabile, al quale dichiara di aver messo in circolazione esattamente 25.050 biglietti da 500 lire per un valore di 12.525.000 di lire, mentre per i biglietti da 50 lire non sa fornire il dato esatto, comunque non meno di 3.000 o 4.000, inoltre denuncia tutti i suoi ex complici, della seconda fabbrica di denaro falso a Pedara.
Il processo inizia nel novembre del 1923, nel frattempo il cosaduciaro e’ morto e anche Graziella la moglie di Carmelino, scompare pochi giorni dopo l’inizio del processo.
L’aula della Va Sez. del Tribunale Penale di Catania e’ la scena dove si svolge l’epilogo di questa vicenda, e’ affollata da alcune migliaia di persone, fra cui gli inviati dei maggiori quotidiani italiani e stranieri, nonché tre studenti universitari che hanno il compito di studiare la psiche del Ciulla, per elaborate altrettante tesi di laurea.
Nel corso del processo i tre esperti inviati dalla Banca d’Italia di Roma, che sono: il comm. Salvatore Candero (capo ufficio della B.d.I.), il dott. Giuseppe Marcora (capo dell’Officina carta e valori della B.d.I.) e il dott. Giovanni Calieri (capo ufficio della direzione generale della B.d.I.), dichiarano che “ ….le 500 lire falsificate da Ciulla sono perfette sotto tutti i punti di vista e sono assai difficilmente riconoscibili come non buone da chi, come i cassieri di banca, e’ abituato a maneggiarne dalla mattina alla sera…”.
Questa dichiarazione, recepita da Ciulla come un tributo alla sua abilità artistica, rappresenta l’unico aspetto lusinghiero di un processo che si conclude per lui con la condanna a cinque anni di carcere e 5.000 lire di multa (dei quali vengono condonati 6 mesi e 2.000 lire) per la contraffazione dei biglietti da 50 e 500 lire; con lui vengono condannati i sui ex complici a pene variabili dai nove ai quattro anni e multe dalle 4.000 alle 1.000 lire.
Il Processo d’Appello, celebrato alla fine del 1925, conferma la pena per Ciulla, che nel frattempo e’ prossimo a tornare in libertà per buona condotta.
Nonostante abbia beneficato molti bisognosi, all’uscita dal carcere nessuno lo aspetta, smarrito inizia a girovagare per Catania, fino a che un soldato di leva proveniente dal continente, gli chiede dove vuole essere accompagnato e quindi lo conduce alla stazione ferroviaria, dove Paolo prende il treno per Caltagirone, dove viene ricoverato all’”Ospizio per i mendicanti” gestito dalle suore, dove il 1 aprile 1931 muore.
A conclusione di questa storia, pare opportuno sottolineare che i falsari sono dei delinquenti particolari perché, a differenza dei delinquenti comuni che usano la violenza, questi utilizzano particolari facoltà tecniche e talvolta anche artistiche; in particolare nel passato, prima dell’avvento della computer-grafica e della fotoriproduzione digitale, l’incisione delle lastre da stampa e la creazione del materiale necessario alla fabbricazione di banconote richiedeva abilità artistiche non comuni.
La prospettiva di un notevole guadagno illecito e’ indubbiamente uno dei fattori che inducono i falsari a dedicarsi alla contraffazione, ma talvolta questa non e’ la motivazione principale.
I falsari di opere d’arte, e spesso anche i falsari di monete e di banconote, sono dei valenti artisti, pittori, incisori, grafici ed artigiani, che sfidano le istituzioni e l’ordine costituito, per dimostrare, per primi a sé stessi e poi anche agli altri, il proprio talento e la loro bravura, magari per spirito di rivalsa verso una società che non ne ha saputo riconoscerne il valore.
Nello spirito di queste considerazioni e’ il caso di osservare che Paolo Francesco Gesualdo Ciulla, era un illuso o un utopista che sognava un mondo senza ingiustizie, un uomo pieno di difetti e distorsioni mentali, ma dotato altresì di un grande senso di solidarietà umana, che si sentiva perseguitato perché nella sua tormentata vita riteneva che non gli fosse mai stata resa giustizia, se non dentro un’aula di tribunale che, mentre lo condannava per i reati commessi, paradossalmente celebrava il riconoscimento della sua innegabile genialità e delle sue notevoli doti artistiche.
Un po’ come Han van Meegeren, il falsario che volle dipingere “le opere mancanti alla gloria di Vermeer”, e che fece passare come originali per un decennio (ne vendette pure 2 ai nazisti per 5 milioni e questa fu la sua rovina…)
si può vedere qualcosa qui
https://libreriamo.it/arte/la-storia-del-falsario-dipingeva-quadri-migliori-degli-originali/
Quando ho letto “stemma sabaudo” ho pensato che fossero banconote emesse dal Regno d’Italia: nel qual caso Ciulla avrebbe effettivamente compiuto un falso.
Tuttavia, dopo aver letto che nel processo a suo carico sono stati ascoltati come testimoni anche esperti della (purtroppo) già esistente Banca d’Italia: prendo atto che è ben più probabile che quello “stemma sabaudo” fosse posto su banconote emesse dalla Banca d’Italia e non dal Regno d’Italia.
In tal caso, essendo già allora la Banca d’Italia espressione di interessi privatissimi (smise di esserlo durante il ventennio fascista, per poi tornare integralmente ad esserlo nel luglio 1981,in occasione del cosiddetto “divorzio” tra BdI e Ministero del Tesoro), ne deriverebbe che quelle banconote fossero già in sé “false”: in quanto, come Gesù ci ricorda, solo il proprietario di qualcosa ha il diritto di imporre la propria effigie (o, il che è lo stesso, il proprio stemma) su quel qualcosa.
E, a questo punto, la domanda diviene: si puó parlare del “falso di un falso”?
Curiosamente, Ciulla aveva per amico Fiducia.
Ma il vero duo delinquenziale “Ciulla-Fiducia” è quello di uno Stato in combutta con una Banca Centrale, dove il primo rende “a corso legale” la moneta emessa dalla (privatissima) seconda, con la duplice aggravante:
1) di volerla spacciare per moneta “statale” (con il trucco, squisitamente da falsario, dell’apposizione di uno stemma lì dove non dovrebbe stare)
2) di volerla spacciare come garantita da qualcos’altro (“pagabile a vista al portatore”, era scritto sulle banconote della BdI), tipicamente oro (che invece è di proprietà pubblica e quindi NON appartiene alla BdI, come la componente verde del governo Conte ha avuto il merito di evidenziare) : laddove trattasi, invece, di moneta squisitamente “fiduciaria” il cui valore risiede quindi solo ed esclusivamente nel fatto di essere accettata come unità di misura (la prima delle funzioni della moneta), da cui l’uso come mezzo di scambio (la seconda delle funzioni della moneta).
E infatti don Giacinto Auriti ben disse che il valore della misura (ossia della moneta intesa come unità di misura) sta nella misura del valore:
quindi, una volta che I soggetti del sistema economico hanno accettato un certo oggetto come unità di misura del valore, allora quell’oggetto inizierà ad essere usato come mezzo di scambio nelle transazioni economiche tra quei medesimi soggetti (che si scambiano oggetti aventi valori diversi, e dove il valore ha una componente sia oggettiva – dipendente dal solo oggetto – e sia soggettiva – dipendente dallo specifico soggetto: motivo per cui un sistema economico privo di un oggetto che svolga la funzione di unità di misura del valore e quindi, di conseguenza, di mezzo di scambio: è immensamente meno funzionante di un sistema economico dotato di moneta
https://www.attivismo.info/elogio-del-falsario/
https://www.attivismo.info/la-grande-truffa-alla-banca-centrale-del-portogallo-del-1925/
https://www.libreidee.org/2019/08/elogio-dellevasore-fiscale-i-veri-danni-allerario-sono-legali/